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lunedì 12 maggio 2014

Turner, Monet e il Novecento: la morte della rappresentazione

"All'inizio rimasi sbalordito, ma poi mi avvicinai a quel quadro enigmatico, assolutamente incomprensibile, e fatto esclusivamente di macchie di colore. Finalmente capii: era un quadro che avevo dipinto io, e che era stato appoggiato al cavalletto. Il giorno dopo tentai, alla luce del Sole, di risuscitare la stessa impressione, ma non riuscì [....]. Quel giorno, però, mi fu perfettamente chiaro che l'oggetto non aveva posto, anzi era dannoso ai miei quadri" (Vasilij Kandinskij)


William Turner amava trarre i soggetti dei suoi quadri da episodi di cronaca, o di vita quotidiana, per rappresentare le sue "impressioni", le sue emozioni davanti alla natura, secondo l'estetica romantica del sublime. Nelle sue tele, lo spazio appare sempre meno percepibile, i contorni delle figure e degli oggetti sono sfumati, e la forma tende a dissolversi nella luce e nel colore (es. "Pioggia, vapore e velocità", 1844). L'artista non rappresenta un oggetto, ma esprime un'emozione, uno stato d'animo soggettivo.
Chi cercò di ricostruire le modalità della visione ottica furono invece gli Impressionisti, che rifiutavano la pittura accademica, fondata sul disegno preparatorio, le linee di contorno, il chiaroscuro e la prospettiva rinascimentale. I pittori francesi volevano restituire il "movimento", l'apparenza precaria, fugace, effimera della percezione attraverso colori puri accostati fra loro, senza mescolarli. 
Un caso particolarmente interessante è quello di Claude Monet, che dedicò la sua attività artistica allo studio dei cambiamenti e degli effetti della luce sugli oggetti. Nella serie interminabile di quadri dedicati ai covoni, alla cattedrale di Rouen, e, soprattutto, alle ninfee nello stagno del suo giardino di Giverny, la distanza tra materia pittorica e immagine viene completamente annullata, e il soggetto scompare tra gli infiniti riflessi della luce e delle acque. Al limite estremo di questo processo, c'è proprio la dissolvenza delle forme, la morte della rappresentazione, l'Astrattismo.
Kandinskij concepiva lo spazio pittorico come un campo in cui si incontrano energie fisiche (colori, punti, linee, superfici) piuttosto che immagini, mentre Malevic e Mondrian giunsero alla non-figurazione accentuando il valore sintetico e simbolico delle forme geometriche; tutti condividevano la convinzione che l'arte non dovesse "rappresentare" o "raccontare", ma veicolare una "rivoluzione dello spirito", diventando puro veicolo espressivo. D'altra parte, gli stessi surrealisti, pur conservando l'impianto figurativo tradizionale, erano convinti che l'arte dovesse aprire, spalancare, "tagliare" (come suggerisce il celebre film-manifesto "Un chien andalou", di Luis Bunuel) l'occhio umano per sondare i sogni, l'inconscio, la memoria.
Nel secondo dopoguerra, l'arte informale arriva addirittura al superamento del supporto tradizionale della tela, che viene bucata, tagliata, bruciata da Burri e Fontana che invitano lo spettatore a guardare non solo dentro, ma "oltre" il quadro. Si arriva così alle Neoavanguardie degli anni 60/70', dove l'opera può dilatarsi raggiungendo dimensioni ambientali (Land Art), o presentare oggetti comuni, costituiti da materiali poveri e anti-artistici (New Dada, Arte povera) fino a ridursi al corpo stesso dell'artista (Perfomance e Body Art).
L'arte contemporanea deforma, decostruisce il linguaggio tradizionale, risale all'origine della forma fino all'annullamento dell'immagine stessa; la realtà non viene "rappresentata", ma semplicemente scelta, modificata e presentata, sfruttando anche i mezzi di comunicazione di massa (il cartellone pubblicitario, i fumetti della Pop Art, o, più recentemente, la Videoarte). Le muse dell'arte classica, direbbe De Chirico, sembrano davvero tramontate.

Giulio Aronica. 


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