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venerdì 30 maggio 2014

La sacralità di una maglia

Guidati da un fortissimo senso autarchico riteniamo la più bella partita del secolo Italia-Germania 4-3 del 1970, semifinale del mondiale messicano.
Ogni popolo poi in fin dei conti avrà la sua partita del secolo, vittorie storiche, rimonte folli, momenti epici che restano scolpiti nella memoria collettiva di un paese.
Forse però la più bella, rocambolesca e meritevole di una menzione speciale nell'iperuranio calcistico si svolse il 16 luglio del 1950, definita la finale del mondiale anche se all'epoca in realtà si svolgeva un gironcino per cui solo casualmente fu una partita che avrebbe deciso qualcosa.
Si sa le divinità del calcio, perché il calcio è un culto politeista e non monoteista, ogni tanto si e ci concedono il piacere di sparigliare le carte e ne escono fuori storie magnifiche costellate da uomini prodigiosi.

Quell'anomala finale vide contrapposte Brasile da una parte e Uruguay dall'altra.
Era una di quelle sfide che ti coinvolge inevitabilmente, in cui il tuo spirito ti spinge inconsapevolmente a parteggiare.
Da una parte il fortissimo Brasile con la sua perla Zizinho, che a detta di Pelé è stato il più forte giocatore che abbia mai visto giocare.
Dall'altra l'Uruguay...
ora sulla Celeste è il caso di aprire una parentesi perché il mito nasce dalla sua storia.
Avevano disertato i mondiali del '34 e del '38, le due edizioni precedenti a quella del '50, ma avevano vinto la prima edizione da loro ospitata nel '30.
In realtà ritenevano di averne vinti già tre di mondiali perché catalogavano in questo modo anche i due ori olimpici di Parigi nel '24 e di Amsterdam del '28 infatti allo stadio Centenario di Montevideo, costruito in occasione del mondiale ospitato dal paese, c'è una targa che recita, “Quattro volte campioni del mondo: 1924, 1928, 1930, 1950”.
La nazionale bi-campione olimpica e campione del mondo nel '30 era composta da grandissimi giocatori, dal punto di vista tecnico il più forte era Jorgé Leandro Andrade ( la meraviglia nera ) soprannome che gli fu dato a Parigi durante l'olimpiade del '24, il più carismatico non per questo meno forte era José Nasazzi Yarza per tutti Nasazzi o il maresciallo.
Di professione era un taglia marmi e durante la finale del 1930 all'intervallo tornati negli spogliatoi in svantaggio per 2-1 contro l'odiatissima argentina sferrò un destro-sinistro sul muro lasciandovi il segno indelebile delle sue nocche, quelle crepe furono lasciate su quel muro per molti anni come si custodiscono le reliquie di un santo.
Un altro fortissimo giocatore di quella nazionale era Hector Castro che segnò il gol di apertura e il gol di chiusura di quel mondiale chiamato El Manco, il mancino, perché la mano destra l'aveva lasciata sotto una fresa quando faceva l'apprendista falegname.
Quel moncherino lo utilizzava per fare perno sulla schiena dei suoi avversari e così saltare più in alto.
El Manco, storie di un calcio che ahimè non c'è più e noi poveri mortali siamo sempre meno aiutati a sognare da questo sport.
Torniamo però alla Partita del 1950.
Il Brasile era semplicemente fortissimo come molto spesso durante i Campionati del Mondo, i suoi giocatori in attacco erano soprannominati la Delantera Magica, in più lo organizzava anche quindi era il favorito, il vincitore annunciato ma le divinità pallonare decisero che se lo sarebbe dovuto meritare sul campo quel titolo e gli opposero l'Uruguay.
Questa Celeste era meno forte di quella del '30 aveva comunque due autentici portenti davanti che entrambi verranno a militare nel campionato italiano, Ghiggia e Schiaffino chiamato in patria El Futtboll.
In mezzo al campo aveva lui, il Capitano, il Totem, Obdulio Varela.
Le gesta di Obdulio compiute quel 16 luglio 1950 sono al confine tra mito e realtà.
Prima di entrare in campo per il fischio d'inizio si dice che abbia fermato i compagni di squadra dicendogli, “Los de afuera son de palo” quelli là fuori non esistono, poi rivolgendosi a Maspoli, uno dei più grandi portieri uruguagi che interpellato sul valore della maglia celeste dirà ai suoi eredi “chi la indossa, indossa una cosa sacra”,dirà “Ya Ganamos”.
La leggenda prosegue raccontandoci che quando l'arbitro Reader lanciò la monetina Varela la bloccò e rivolgendosi al massimo giudice in campo fece presente che avrebbe lasciato ai brasiliani la scelta della palla o del campo tanto alla fine sarebbe stato lui con il suo Uruguay campione del mondo.
Il primo tempo passò costellato da un susseguirsi di occasioni dei carioca e contropiedi spesso pericolosi degli uruguagi.
Si va negli spogliatoi sullo zero a zero e con questo risultato il Brasile sarebbe campione ma la squadra che sapeva solo vincere non poteva permettersi di conquistare il titolo senza fare una goleada.
Intanto nello spogliatoio uruguaiano Obdulio chiedeva ai compagni il sangue, si dice che si riferisse al proprio, credo che tutto sommato per lui non avrebbe fatto molta differenza.
La maglia Celeste intrisa di storia e gloria non andava disonorata, se per ottenere questo ci fosse stato bisogno di far scorrere sangue, sportivamente parlando, credo proprio che a Varela di quale popolo fosse non importasse alcunché.
Ricomincia la partita e dopo pochi minuti, per essere pignoli due, il Brasile segna con Friaça.
Il Maracanà, il più grande stadio del mondo con al suo interno 205.000 persone, esplode.....
GOOOOOOOOOOOLLL!!!!
Sembra il preludio alla vittoria più bella per i brasiliani e invece è l'inizio di una delle pagine più avvincenti della storia del nostro amato pallone.
Perché vi ricordate dei due attaccanti che sarebbero venuti dopo il mondiale a giocare in Italia?
Ecco segnarono entrambi prima El Futtboll e poi Ghiggia, che si vanterà di essere uno dei tre che sono riusciti a fare stare in completo silenzio il Maracanà con 200.000 persone dentro.
Per inciso gli altri due sono stati Frank Sinatra e papa Giovanni Paolo II.
In Brasile la sconfitta della nazionale carioca che sapeva solo vincere comportò parecchi malori, si dice ci siano stati duecento morti per infarto nel paese, il cambio per sempre dei colori della maglia brasiliana che divenne gialla e verde mentre fino a quel dannato 16 luglio giocavano con maglia bianca e colletto celeste.
Di quella partita ogni spettatore ha una versione diversa proprio per questo lo scrittore Carlos Heitor Cony confessa di “aver smesso di credere in Dio quel giorno. Non tanto per la sconfitta, quanto perché non ho visto due persone che descrivessero il gol di Ghiggia allo stesso modo. E allora come credere alla versione di mezza dozzina di apostoli che dissero di aver visto Cristo resuscitare in un luogo deserto e oscuro”.
In Brasile verrà ricordato per sempre come il Dia de derrota, per Varela si era onorata la memoria del mitico Uruguay degli anni a cavallo tra il '20 e il '30 e si era portato a casa il quarto titolo mondiale.



Giulio Achille Mignini.

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