Guidati da un fortissimo senso
autarchico riteniamo la più bella partita del secolo Italia-Germania
4-3 del 1970, semifinale del mondiale messicano.
Ogni popolo poi in fin dei conti avrà
la sua partita del secolo, vittorie storiche, rimonte folli, momenti
epici che restano scolpiti nella memoria collettiva di un paese.
Forse però la più bella, rocambolesca
e meritevole di una menzione speciale nell'iperuranio calcistico si
svolse il 16 luglio del 1950, definita la finale del mondiale anche
se all'epoca in realtà si svolgeva un gironcino per cui solo
casualmente fu una partita che avrebbe deciso qualcosa.
Si sa le divinità del calcio, perché
il calcio è un culto politeista e non monoteista, ogni tanto si e ci
concedono il piacere di sparigliare le carte e ne escono fuori storie
magnifiche costellate da uomini prodigiosi.
Quell'anomala finale vide contrapposte
Brasile da una parte e Uruguay dall'altra.
Era una di quelle sfide che ti
coinvolge inevitabilmente, in cui il tuo spirito ti spinge
inconsapevolmente a parteggiare.
Da una parte il fortissimo Brasile con
la sua perla Zizinho, che a detta di Pelé è stato il più forte
giocatore che abbia mai visto giocare.
Dall'altra l'Uruguay...
ora sulla Celeste è il caso di aprire
una parentesi perché il mito nasce dalla sua storia.
Avevano disertato i mondiali del '34 e
del '38, le due edizioni precedenti a quella del '50, ma avevano
vinto la prima edizione da loro ospitata nel '30.
In realtà ritenevano di averne vinti
già tre di mondiali perché catalogavano in questo modo anche i due
ori olimpici di Parigi nel '24 e di Amsterdam del '28 infatti allo
stadio Centenario di Montevideo, costruito in occasione del mondiale
ospitato dal paese, c'è una targa che recita, “Quattro volte
campioni del mondo: 1924, 1928, 1930, 1950”.
La nazionale bi-campione olimpica e
campione del mondo nel '30 era composta da grandissimi giocatori, dal
punto di vista tecnico il più forte era Jorgé Leandro Andrade ( la
meraviglia nera ) soprannome che gli fu dato a Parigi durante
l'olimpiade del '24, il più carismatico non per questo meno forte
era José Nasazzi Yarza per tutti Nasazzi o il maresciallo.
Di professione era un taglia marmi e
durante la finale del 1930 all'intervallo tornati negli spogliatoi in
svantaggio per 2-1 contro l'odiatissima argentina sferrò un
destro-sinistro sul muro lasciandovi il segno indelebile delle sue
nocche, quelle crepe furono lasciate su quel muro per molti anni come
si custodiscono le reliquie di un santo.
Un altro fortissimo giocatore di quella
nazionale era Hector Castro che segnò il gol di apertura e il gol di
chiusura di quel mondiale chiamato El Manco, il
mancino, perché la mano destra l'aveva lasciata sotto una fresa
quando faceva l'apprendista falegname.
Quel
moncherino lo utilizzava per fare perno sulla schiena dei suoi
avversari e così saltare più in alto.
El Manco, storie
di un calcio che ahimè non c'è più e noi poveri mortali siamo
sempre meno aiutati a sognare da questo sport.
Torniamo però alla
Partita del 1950.
Il
Brasile era semplicemente fortissimo come molto spesso durante i
Campionati del Mondo, i suoi giocatori in attacco erano
soprannominati la Delantera Magica,
in più lo organizzava anche quindi era il favorito, il vincitore
annunciato ma le divinità pallonare decisero che se lo sarebbe
dovuto meritare sul campo quel titolo e gli opposero l'Uruguay.
Questa
Celeste era meno forte di quella del '30 aveva comunque due autentici
portenti davanti che entrambi verranno a militare nel campionato
italiano, Ghiggia e Schiaffino chiamato in patria El
Futtboll.
In mezzo al campo
aveva lui, il Capitano, il Totem, Obdulio Varela.
Le gesta di Obdulio
compiute quel 16 luglio 1950 sono al confine tra mito e realtà.
Prima
di entrare in campo per il fischio d'inizio si dice che abbia fermato
i compagni di squadra dicendogli, “Los de afuera son de
palo” quelli là fuori non esistono, poi
rivolgendosi a Maspoli, uno dei più grandi portieri uruguagi che
interpellato sul valore della maglia celeste dirà ai suoi eredi “chi
la indossa, indossa una cosa sacra”,dirà
“Ya Ganamos”.
La leggenda
prosegue raccontandoci che quando l'arbitro Reader lanciò la
monetina Varela la bloccò e rivolgendosi al massimo giudice in campo
fece presente che avrebbe lasciato ai brasiliani la scelta della
palla o del campo tanto alla fine sarebbe stato lui con il suo
Uruguay campione del mondo.
Il primo tempo
passò costellato da un susseguirsi di occasioni dei carioca e
contropiedi spesso pericolosi degli uruguagi.
Si va negli
spogliatoi sullo zero a zero e con questo risultato il Brasile
sarebbe campione ma la squadra che sapeva solo vincere non poteva
permettersi di conquistare il titolo senza fare una goleada.
Intanto nello
spogliatoio uruguaiano Obdulio chiedeva ai compagni il sangue, si
dice che si riferisse al proprio, credo che tutto sommato per lui non
avrebbe fatto molta differenza.
La maglia Celeste
intrisa di storia e gloria non andava disonorata, se per ottenere
questo ci fosse stato bisogno di far scorrere sangue, sportivamente
parlando, credo proprio che a Varela di quale popolo fosse non
importasse alcunché.
Ricomincia la
partita e dopo pochi minuti, per essere pignoli due, il Brasile segna
con Friaça.
Il
Maracanà, il più grande stadio del mondo con al suo interno 205.000
persone, esplode.....
GOOOOOOOOOOOLLL!!!!
Sembra
il preludio alla vittoria più bella per i brasiliani e invece è
l'inizio di una delle pagine più avvincenti della storia del nostro
amato pallone.
Perché
vi ricordate dei due attaccanti che sarebbero venuti dopo il mondiale
a giocare in Italia?
Ecco
segnarono entrambi prima El
Futtboll e poi
Ghiggia, che si vanterà di essere uno dei tre che sono riusciti a
fare stare in completo silenzio il Maracanà con 200.000 persone
dentro.
Per
inciso gli altri due sono stati Frank Sinatra e papa Giovanni Paolo
II.
In
Brasile la sconfitta della nazionale carioca che sapeva solo vincere
comportò parecchi malori, si dice ci siano stati duecento morti per
infarto nel paese, il cambio per sempre dei colori della maglia
brasiliana che divenne gialla e verde mentre fino a quel dannato 16
luglio giocavano con maglia bianca e colletto celeste.
Di
quella partita ogni spettatore ha una versione diversa proprio per
questo lo scrittore Carlos Heitor Cony confessa di “aver
smesso di credere in Dio quel giorno. Non tanto per la sconfitta,
quanto perché non ho visto due persone che descrivessero il gol di
Ghiggia allo stesso modo. E allora come credere alla versione di
mezza dozzina di apostoli che dissero di aver visto Cristo
resuscitare in un luogo deserto e oscuro”.
In
Brasile verrà ricordato per sempre come il Dia
de derrota, per Varela
si era onorata la memoria del mitico Uruguay degli anni a cavallo tra
il '20 e il '30 e si era portato a casa il quarto titolo mondiale.
Giulio
Achille Mignini.
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