Guardandolo in foto ai tempi del Real
Madrid lo trovi rotondo, spelacchiato e poco atletico ( forse anche
per i canoni dell'epoca ).
Rimani disorientato, il soprannome
Saeta Rubia non gli si
addice.
I
capelli non sono poi così tanti e quel corpo non pare poter
saettare.
Poi ti vai a
leggere il suo palmares e sembra lo scontrino del supermercato per la
spesa di Natale, chilometrico.
Due campionati
argentini con il River Plate, tre campionati colombiani con il
Deportivo Los Millonarios, otto campionati spagnoli con il Real
Madrid con cui vinse anche cinque coppe campioni, una coppa
intercontinentale, una coppa di spagna e due coppe latina (antesignana della coppa campioni).
A titolo personale
si portò a casa anche due palloni d'oro.
Aridi nomi di
trofei, secchi numeri che come i gradi di un generale non ci dicono
realmente niente del calciatore, non ci raccontano nulla della gioia
data, nulla delle lacrime che hanno rigato i volti di chi per errore
si trovò ad averlo come avversario.
Nasce nel 1926 a
Buenos Aires da padre italiano, entra nelle giovanili del River Plate
ed esordisce a diciassette anni in prima squadra.
Viene mandato
nell'Huracan a farsi le ossa e torna in famiglia nel 1947.
Durante la crisi
economica che colpì l'Argentina a fine anni quaranta sorsero attriti
tra giocatori e società calcistiche sulla questione stipendi.
I più forti
giocatori, tra cui la nostra Saeta espatriarono nella vicina
Colombia il cui campionato non era riconosciuto dalla FIFA.
Qui giocò nel
Deportivo Los Millonarios e incantò con il suo calcio estroso con il
perenne fine di accompagnare quella pelota portatrice di sogni
tra quei tre legni alla parte opposta del campo.
Mai una giocata
fine a se stessa, era tanto vizioso fuori dal campo quanto
professionale nel mestiere di calciatore.
Atipico, da
argentino estroso, il suo essere sempre puntuale agli allenamenti.
Brera, il sommo, ci
racconta un aneddoto su Di Stefano ai tempi colombiani, durante una
partita colpì la palla talmente forte dal limite dell'aria
avversaria che stampandosi contro la traversa il rimbalzo fece
partire un contro attacco avversario, il nostro biondo non si perse
d'animo rincorse il sacrilego avversario che teneva per se il pallone
lo raggiunse dall'altra parte del campo, riprese per se la palla,
driblò chi era d'intralcio, chiese un triangolo al compagno di
squadra Pedernera ( prolifico attaccante ) si involò, da vera Saeta,
verso la porta avversaria e questa volta la rete si gonfiò.
A
questo punto gli si avvicinò Pedernera e gli disse, me lo immagino
Pedernera con occhio obliquo e tono da gringo alla spaghetti western,
Ola muchacho, no olvides que esto es nuestro pan.
Che
tradotto nella lingua nata dai versi delle Tre Corone
significa pressappoco se
tu banalizzi il calcio in tale maniera noi tutti ci rimettiamo il
pane.
Approdato nel '53
in terra iberica si accasò in casa blancos per undici stagioni
rimpinguendo la bacheca della squadra di numerosi trofei.
Era un Real Madrid
stellare e lui era l'astro più luminoso.
Ancelotti e company
quest'anno hanno potuto levare al cielo di Lisbona la Decima solo
ed esclusivamente perchè i blancos di Di Stefano ne vinsero cinque
di fila sennò sarebbe stata assai lontana la doppia cifra.
Il nostro uomo non
calcò mai i campi da calcio durante un campionato del mondo, nel
1950 perchè l'Argentina disertò i mondiali brasiliani ( quelli del
Maracanazo per intenderci ), nel 1954 presa la nazionalità
spagnola non volò in Svizzera a disputare il torneo perché la
Spagna non si qualificò, non riuscì ad esserci nemmeno nel 1958 in
Svezia ( il mondiale che fece conoscere al mondo il diciottenne Pelé
) causa infortunio.
Nel mondo del
calcio si dice che un vero campione per essere considerato tale deve
far vincere un mondiale alla sua nazione, è consolatorio scoprire
che anche in questo c'è l'eccezione che conferma la regola.
Nessun commento:
Posta un commento