Collaboratori

sabato 26 luglio 2014

La Saeta Rubia

Guardandolo in foto ai tempi del Real Madrid lo trovi rotondo, spelacchiato e poco atletico ( forse anche per i canoni dell'epoca ).
Rimani disorientato, il soprannome Saeta Rubia non gli si addice.
I capelli non sono poi così tanti e quel corpo non pare poter saettare.
Poi ti vai a leggere il suo palmares e sembra lo scontrino del supermercato per la spesa di Natale, chilometrico.
Due campionati argentini con il River Plate, tre campionati colombiani con il Deportivo Los Millonarios, otto campionati spagnoli con il Real Madrid con cui vinse anche cinque coppe campioni, una coppa intercontinentale, una coppa di spagna e due coppe latina (antesignana della coppa campioni).
A titolo personale si portò a casa anche due palloni d'oro.

Aridi nomi di trofei, secchi numeri che come i gradi di un generale non ci dicono realmente niente del calciatore, non ci raccontano nulla della gioia data, nulla delle lacrime che hanno rigato i volti di chi per errore si trovò ad averlo come avversario.
Nasce nel 1926 a Buenos Aires da padre italiano, entra nelle giovanili del River Plate ed esordisce a diciassette anni in prima squadra.
Viene mandato nell'Huracan a farsi le ossa e torna in famiglia nel 1947.
Durante la crisi economica che colpì l'Argentina a fine anni quaranta sorsero attriti tra giocatori e società calcistiche sulla questione stipendi.
I più forti giocatori, tra cui la nostra Saeta espatriarono nella vicina Colombia il cui campionato non era riconosciuto dalla FIFA.
Qui giocò nel Deportivo Los Millonarios e incantò con il suo calcio estroso con il perenne fine di accompagnare quella pelota portatrice di sogni tra quei tre legni alla parte opposta del campo.
Mai una giocata fine a se stessa, era tanto vizioso fuori dal campo quanto professionale nel mestiere di calciatore.
Atipico, da argentino estroso, il suo essere sempre puntuale agli allenamenti.
Brera, il sommo, ci racconta un aneddoto su Di Stefano ai tempi colombiani, durante una partita colpì la palla talmente forte dal limite dell'aria avversaria che stampandosi contro la traversa il rimbalzo fece partire un contro attacco avversario, il nostro biondo non si perse d'animo rincorse il sacrilego avversario che teneva per se il pallone lo raggiunse dall'altra parte del campo, riprese per se la palla, driblò chi era d'intralcio, chiese un triangolo al compagno di squadra Pedernera ( prolifico attaccante ) si involò, da vera Saeta, verso la porta avversaria e questa volta la rete si gonfiò.
A questo punto gli si avvicinò Pedernera e gli disse, me lo immagino Pedernera con occhio obliquo e tono da gringo alla spaghetti western, Ola muchacho, no olvides que esto es nuestro pan.
Che tradotto nella lingua nata dai versi delle Tre Corone significa pressappoco se tu banalizzi il calcio in tale maniera noi tutti ci rimettiamo il pane.
Approdato nel '53 in terra iberica si accasò in casa blancos per undici stagioni rimpinguendo la bacheca della squadra di numerosi trofei.
Era un Real Madrid stellare e lui era l'astro più luminoso.
Ancelotti e company quest'anno hanno potuto levare al cielo di Lisbona la Decima solo ed esclusivamente perchè i blancos di Di Stefano ne vinsero cinque di fila sennò sarebbe stata assai lontana la doppia cifra.
Il nostro uomo non calcò mai i campi da calcio durante un campionato del mondo, nel 1950 perchè l'Argentina disertò i mondiali brasiliani ( quelli del Maracanazo per intenderci ), nel 1954 presa la nazionalità spagnola non volò in Svizzera a disputare il torneo perché la Spagna non si qualificò, non riuscì ad esserci nemmeno nel 1958 in Svezia ( il mondiale che fece conoscere al mondo il diciottenne Pelé ) causa infortunio.

Nel mondo del calcio si dice che un vero campione per essere considerato tale deve far vincere un mondiale alla sua nazione, è consolatorio scoprire che anche in questo c'è l'eccezione che conferma la regola.

Nessun commento:

Posta un commento