"Porosa come questa pietra è l'architettura. Fare e costruire si mescolano tra loro in cortili, archi, scalinate. Si conserva dunque uno spazio che possa divenire teatro di nuove e imprevedibili costellazioni. Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com'è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone un "così e nient'altro". In questo modo nasce l'architettura, l'esempio più convincente del senso del ritmo di una comunità"
W. Benjamin
Clet lo aveva già previsto. I suoi interventi artistici non potevano accontentare tutti, sicuramente non possono lasciare indifferenti la cittadinanza né tantomeno gli addetti ai lavori del mondo dell'arte contemporanea. D'altronde lui ha “osato” intervenire sulla famosa opera di Henry Moore. E questo non può non essere almeno un po' provocatorio.
Clet
si dice curioso
e interessato a ciò che può venire fuori dal dibattito e
garantisce: “sarà sicuramente molto divertente”.
E
divertente effettivamente lo è. Nel polverone che si è alzato per
le istallazioni che l'artista del quartiere San Niccolò ha fatto
alle porte di Prato e in piazza San Marco c'è anche la risposta
spiritosa e allo stesso tempo fortemente critica di alcuni pratesi
che, giocando sull'ironia della parola Avanzi, sbeffeggiano
l'intervento di Clet.
Il
progetto di “personalizzazione” delle porte storiche è stato
commissionato dai Lions cittadini e dal Comune e, come era
prevedibile ha provocato un marasma di critiche e commenti di ogni
tipo.
La
città è divisa tra chi apprezza e chi vorrebbe rimuovere le opere.
Le
istallazioni sono ben visibili per le loro grandi dimensioni e per le
forme che istintivamente catturano l'attenzione e spingono chi
cammina ad alzare lo sguardo. Si tratta di grossi nasi e occhi che,
adagiati sulle porte della città, formano delle enormi facce
espressive, simili a quella che allestì nel 2012 sulla torre di San
Niccolò a Firenze.
Al
centro delle polemiche
l'intervento sulla famosa opera “Forma squadrata con taglio” in
piazza San Marco (spesso apostrofata più prosaicamente come Rotonda
col buco o Buco di Moore). In
un'intervista Fabio Cavallucci, direttore
del Centro per l’Arte
Contemporanea
Luigi Pecci, bolla
gli interventi di Clet come “roba da bagni pubblici” (per
ascoltare l'intervista clicca qui).
Insomma
opere banali, prive di spessore e significato artistico che deturpano
la città invece di renderla più bella.
Premetto
che a me non piacciono
particolarmente,
apprezzo le opere di Clet ma anche i suoi cartelli stradali
rivisitati mi sono venuti un
po' a
noia (non me ne voglia Clet!). Non intendo perciò entrare nella
questione prettamente estetica della discussione ma ritengo
comunque che gli occhioni di prato siano un bene
per la città.
Questo
è
quanto: occhi,
nasoni
e le aperture delle vecchie mura si aprono come bocche voraci.
Troppo
semplice?
Eccessivamente
banale?
Gli
occhiali offendono la serietà, la profondità, la bellezza, le
forme plastiche dell'arte
contemporanea?
Forse
sì.
Ma
chi ha detto che l'arte deve essere una cosa seria? (Mi
viene in mente Osvaldo Paniccia, ma questa è un'altra storia). Per
quale legge incontrovertibile l'architettura urbana deve restare
immacolata e neutrale nell'indifferenza quotidiana di chi la vive
senza rendersene conto?
Penso
che molte persone abbiano conosciuto il vero nome del buco di Moore
solo in questi giorni, che tanti abbiano di nuovo alzato lo sguardo
alle porte antiche solo perché c'hanno piazzato un nasone di
acciaio, e questo ha provocato in loro un sorriso o una smorfia,
comunque un'emozione, e poi magari qualche domanda e qualche
dubbio sulla
bellezza, sull'arte,
sulla propria città...
Se
il compito dell'arte è quello di far vedere ciò che non si vede,
allora anche questa interazione giocosa con le strutture e le
forme
della città è arte. E ben venga. Modificare
provvisoriamente l'architettura urbana (senza
rovinarla, ovviamente),
permette ai cittadini che la vivono di appropriarsene veramente, di
sentirsi più partecipi di ciò che effettivamente gli
appartiene anche se attraverso i dubbi e le critiche. Abitare una
casa, una città non vuol dire ricoprire mobili e immobili con teloni
di plastica
trasparente perché non si rovinino in un eccesso di riverenza e
soggezione che
ne impedisce il piacere della libera fruizione.
La street art fa quello che noi tutti facciamo nelle nostre stanze
per renderle
simili a noi, più belle,
per sentirci a casa, e se stavolta ha scelto di puntarci addosso
degli occhi giganteschi sarà forse per permetterci di vedere meglio
o di vedere di più...allora ben venga Clet e ben vengano
le polemiche.
AB
AB
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