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lunedì 1 settembre 2014

Barrilete cosmico

La vita nel suo immenso e infinito scorrere è episodica.
Attimi che risultano eterni.
Paradossi temporali.
E' in quelle singole circostanze, in quegli attimi circoscritti che si palesa il nostro essere.
Il 22 giugno 1986 allo stadio Azteca, uno dei tanti templi pallonari, Diego da Villa Fiorito, spericolato giocoliere con la sua vita e di conseguenza anche con un pallone tra i piedi, decise di manifestarsi in toto.
Angelo e demone, ladruncolo e profeta, lirismo poetico e istinto animale.

Un antefatto a questo punto è d'obbligo.
Il 2 aprile 1982 l'Argentina occupa le isole falkland, speroni di rocce britanniche al largo delle coste argentine, è l'ultimo sussulto di un regime che sta già crollando e il colpo di grazia lo riceverà proprio dalla sconfitta in questa inutile guerra sul possesso del niente.
Si sa gli inglesi non accettano affronti e se sbarri loro la strada organizzati per un loro arrivo.
Bruciava ancora quel 22 giugno nei cuori argentini lo smacco delle Malvinas, nome che dalle parti di Buenos Aires sta ad indicare le Falkland.
Il nostro uomo, “contro” di natura, decise che avrebbe umiliato i sudditi di sua maestà a modo suo.
Al 51' minuto di una partita fino a quel momento senza alcun sussulto assestò un cazzottino scaltro e fugace al pallone anticipando l'uscita del portiere inglese Shilton.
Dalle immagini si vede come i suoi stessi compagni di squadra rimasero esterefatti, lui invece come se niente di anomalo fosse accaduto esultò.
Cinque minuti dopo il demone tornò angelo, il ladruncolo divenne profeta e la palla presa in custodia nella propria metà campo viene accompagnata con premura dal piede sinistro fino alle spalle dell'inutile Shilton.
Mi perdoni Shilton, non inutile lui in quanto tale, lo sarebbe stato chiunque, l'inglese ebbe solo la sfortuna di essere lì.
Di trovarsi a difendere l'indifendibile.
Quel gol fu più “cazzotto” del precedente, fu un pugno alla miseria, alla disperazione, al quotidiano, all'immutabile.
Qui si crea una commistione fra uomini, ogni gesto eroico ha bisogno del suo cantore.
Come Odisseo ha avuto bisogno di Omero per “essere”, la calda voce uruguagia di Hugo Morales ha reso immortale qualcosa di straordinario.
Hugo non ha banalmente fatto la telecronaca del gol, ha reso immortale quella sequenza di immagini.
Non c'è l'uno senza l'altro.
Quella voce nel nostro immaginario è il gol di Maradona.
Prova a seguire l'incalzare del patos, “Ahi la tiene Maradona, los marcan dos, pisa la pelota Maradona, arranca por la derecha el genio del fùtbol mundial...”.
Poi mancano le parole, quel che vede è troppo, la mente nell'istante in cui realizza cosa sta accadendo si passa già al fotogramma successivo.
Allora Hugo diventa istinto come il nostro “diez” e può solo dire “...siempre Maradona! Genio! Genio! Genio! Ta-Ta-Ta-Ta-Ta-Ta..Y gooooool!...”.
Solo con dei monosillabi può seguire vocalmente ciò che vedono i suoi occhi.
Quiero llorar dios santo, viva el futbol...Golazoooooo!!! Diegooool!!! Maradona! Es para llorar, perdònenme...Maradona en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos”.
La voce rotta da un procinto di pianto, non di tristezza ma di gioia, di gratitudine.
Lo chiama “barrilete cosmico”, aquilone cosmico.
Mai epiteto fu più calzante.
L'aquilone divertimento fai-da-te, risulta un appendice del corpo quando si libra in aria, permette il fantasticare.
Un po' come la fuga del bambino da Villa Fiorito, bandito del pallone in fuga dagli inglesi.
Maradona è stato anche questo, insieme a tanto altro.
Sicuramente ci ha dato più di quanto possa aver ricevuto.
I due gol contro gli inglesi mi permettono di credere ancora in maniera ottusa che il calcio è uno degli sport più belli del mondo.
E che il niňo di Villa Fiorito è stato il suo più grande interprete.


Giulio Achille Mignini.


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