Collaboratori

lunedì 31 marzo 2014

Rugby: leggi e miti di uno sport

Leggendo un po' sul rugby nell'ultimo periodo ovunque stava scritto, nel rugby non ci sono regole ma leggi.
È gente che si prende sul serio ma non per vanagloria, basta guardare una partita e si evince subito che ne hanno ben donde.
Tutto nacque nel 1823, nel college di Rugby, quando William Webb Ellis si stancò di dare calci ad un pallone e prendendolo in mano si lanciò versò la porta avversaria tra lo stupore generale.
Non è dato sapere se fosse un buon giocatore, il suo nome rimarrà immortale per aver inventato uno sport, alla sua memoria è dedicata la coppa del mondo di rugby.
Ci si gioca in quindici, dato che le squadre che si affrontano sono due, in campo vanno trenta baldi giovani per definire i quali si scomodò anche Osar Wilde dicendo che il rugby è una buona scusa per tenere trenta energumeni lontani dal centro della città.
Nel rugby i giocatori passano, le maglie restano.
Questo a tutti, giocatori compresi, è ben chiaro.
Sulle maglie i numeri vanno dall'uno al quindici perché non indicano chi sei, non è importante, ma qual'è il tuo ruolo, perché stai in campo, cosa ci si deve aspettare da te.
Dall'uno all'otto indicano gli avanti, il nove e il dieci i mediani di mischia e di apertura, dall'undici al quindici i tre quarti.
Non c'è spazio per sterili personalismi, non si posso variare questi numeri.
Ne tanto meno i suddetti numeri possono essere ritirati, come spesso accade nel mondo del calcio. Conta il club, la nazionale per cui si gioca, conta il collettivo.
Il rugby è fatto di templi, luoghi sacri, in cui si respira un'aria mistica.
In uno di questi, Twickenham, terreno sacro della nazionale inglese, nel tunnel che porta i giocatori in campo c'è una scritta murale che rammenta ai giocatori di non dimenticare chi ha indossato quelle maglie prima di loro e di onorarle.
A Croke Park, dove giocava in casa la nazionale irlandese, fino al 2007 si potevano svolgere solo sport gaelici e mai e poi mai sport inventati dagli inglesi, quindi né calcio né rugby.
Per gli irlandesi quello è il luogo della memoria.
È lì che il 21 novembre 1920 l'esercito inglese entrato nello stadio durante una partita di calcio gaelico uccise tredici persone, dodici spettatori e un giocatore.
La tristemente nota Bloody Sunday, la domenica di sangue.
Non scorre buon sangue tra irlandesi e inglesi e le partite tra loro sono qualcosa di più che una semplice manifestazione sportiva, si difende l'orgoglio patrio.
Non bieco nazionalismo, come troppo spesso abbiamo la sfortuna di assistere nel nostro paese, ma senso di appartenenza, orgoglio per le proprie radici.
Anche i gallesi non vedono di buon occhio i sudditi della regina e nel rugby cercano spesso di mettere le cose in chiaro.
Phil Bennet, storico mediano d'apertura gallese, prima di una partita contro l'Inghilterra nel 1977 caricò così i compagni di squadra.
Guardate cos'hanno fatto al Galles questi bastardi. Hanno preso il nostro carbone, la nostra acqua, il nostro acciaio. Comprano le nostre case per passarci un weekend all'anno. Cosa ci hanno dato in cambio? Assolutamente nulla. Siamo stati sfruttati, umiliati, controllati e puniti dagli inglesi. E noi oggi giochiamo contro di loro”.
Per non parlare degli scozzesi che definiscono la partita contro l'Inghilterra la “caccia la pavone” e prima di ogni sfida cantano al solo suono di cornamuse l'inno Flower of Scotland.
Inno che ricorda agli inglesi come nel 1314, capeggiati da Roberto I di Scozia, sconfissero l'esercito del “fiero Edoardo II” a Bannockburn.
Nel Regno Unito c'è una storiella che dice, gli inglesi giocano a rugby perché l'hanno inventato, gli scozzesi perché odiano gli inglesi, gli irlandesi perché non vi è altro metodo legale per picchiare gli inglesi, i gallesi perché o sono nati su un campo da rugby o perché vi furono concepiti.
Le partite tra le nazionali non sono mai amichevoli, le chiamano test match, si è orgogliosi di indossare la maglia del proprio paese.
Non si inventano, come accade sovente nel mondo pallonaro nostrano, acciacchi per potersene restare a casa.
Un comportamento del genere porterebbe ad un immediato ostracismo, in un mondo che ha leggi non regole.
Un mondo però che ti resta dentro, Shane Williams, tre quarti ala gallese, chiarisce questo concetto quando durante un'intervista alla fine della sua ultima partita con la maglia della nazionale dice che vorrebbe rimanere nel mondo del rugby.
In realtà afferma qualcosa di più profondo perché letteralmente lui dice, in the rugby side of things.
Come se aver giocato a rugby, o anche solo essere stato vicino a questo mondo, ti lasciasse in eredità una prospettiva diversa nel valutare la vita, un colpo d'occhio sul mondo più schietto e sincero.
Credo che sia questo quello che fa innamorare di questo sport, sembra una realizzazione teatrale della nostra vita.
Fatta di tentativi convulsi di giungere da qualche parte, costellati da enormi tronate, cadute.
Bisogna avere la forza di rialzarsi, utilizzando sempre gli insegnamenti del passato ed è buona regola avere persone accanto che sinceramente tendano con te ad un obbiettivo comune.

Almeno male che vada si è stati in compagnia.

Già pubblicato su "Il Becco".

Giulio Achille Mignini

Nessun commento:

Posta un commento