Leggendo un po' sul rugby nell'ultimo
periodo ovunque stava scritto, nel rugby non ci sono regole ma
leggi.
È gente che si prende sul serio ma non
per vanagloria, basta guardare una partita e si evince subito che ne
hanno ben donde.
Tutto nacque nel 1823, nel college di
Rugby, quando William Webb Ellis si stancò di dare calci ad un
pallone e prendendolo in mano si lanciò versò la porta avversaria
tra lo stupore generale.
Non è dato sapere se fosse un buon
giocatore, il suo nome rimarrà immortale per aver inventato uno
sport, alla sua memoria è dedicata la coppa del mondo di rugby.
Ci si gioca in quindici, dato che le
squadre che si affrontano sono due, in campo vanno trenta baldi
giovani per definire i quali si scomodò anche Osar Wilde dicendo che
il rugby è una buona scusa per tenere trenta energumeni lontani
dal centro della città.
Nel rugby i giocatori passano, le
maglie restano.
Questo a tutti, giocatori compresi, è
ben chiaro.
Sulle maglie i numeri vanno dall'uno al
quindici perché non indicano chi sei, non è importante, ma qual'è
il tuo ruolo, perché stai in campo, cosa ci si deve aspettare da te.
Dall'uno all'otto indicano gli avanti,
il nove e il dieci i mediani di mischia e di apertura, dall'undici al
quindici i tre quarti.
Non c'è spazio per sterili
personalismi, non si posso variare questi numeri.
Ne tanto meno i suddetti numeri possono
essere ritirati, come spesso accade nel mondo del calcio. Conta il
club, la nazionale per cui si gioca, conta il collettivo.
Il rugby è fatto di templi, luoghi
sacri, in cui si respira un'aria mistica.
In uno di questi, Twickenham, terreno
sacro della nazionale inglese, nel tunnel che porta i giocatori in
campo c'è una scritta murale che rammenta ai giocatori di non
dimenticare chi ha indossato quelle maglie prima di loro e di
onorarle.
A Croke Park, dove giocava in casa la
nazionale irlandese, fino al 2007 si potevano svolgere solo sport
gaelici e mai e poi mai sport inventati dagli inglesi, quindi né
calcio né rugby.
Per gli irlandesi quello è il luogo
della memoria.
È lì che il 21 novembre 1920
l'esercito inglese entrato nello stadio durante una partita di calcio
gaelico uccise tredici persone, dodici spettatori e un giocatore.
La tristemente nota Bloody Sunday,
la domenica di sangue.
Non scorre buon
sangue tra irlandesi e inglesi e le partite tra loro sono qualcosa di
più che una semplice manifestazione sportiva, si difende l'orgoglio
patrio.
Non bieco
nazionalismo, come troppo spesso abbiamo la sfortuna di assistere nel
nostro paese, ma senso di appartenenza, orgoglio per le proprie
radici.
Anche i gallesi non
vedono di buon occhio i sudditi della regina e nel rugby cercano
spesso di mettere le cose in chiaro.
Phil Bennet,
storico mediano d'apertura gallese, prima di una partita contro
l'Inghilterra nel 1977 caricò così i compagni di squadra.
“Guardate cos'hanno fatto al
Galles questi bastardi. Hanno preso il nostro carbone, la nostra
acqua, il nostro acciaio. Comprano le nostre case per passarci un
weekend all'anno. Cosa ci hanno dato in cambio? Assolutamente nulla.
Siamo stati sfruttati, umiliati, controllati e puniti dagli inglesi.
E noi oggi giochiamo contro di loro”.
Per non parlare
degli scozzesi che definiscono la partita contro l'Inghilterra la
“caccia la pavone” e prima di ogni sfida cantano al solo suono di
cornamuse l'inno Flower of Scotland.
Inno che ricorda
agli inglesi come nel 1314, capeggiati da Roberto I di Scozia,
sconfissero l'esercito del “fiero Edoardo II” a Bannockburn.
Nel Regno Unito c'è
una storiella che dice, gli inglesi giocano a rugby perché
l'hanno inventato, gli scozzesi perché odiano gli inglesi, gli
irlandesi perché non vi è altro metodo legale per picchiare gli
inglesi, i gallesi perché o sono nati su un campo da rugby o perché
vi furono concepiti.
Le partite tra le
nazionali non sono mai amichevoli, le chiamano test match, si
è orgogliosi di indossare la maglia del proprio paese.
Non si inventano,
come accade sovente nel mondo pallonaro nostrano, acciacchi per
potersene restare a casa.
Un comportamento
del genere porterebbe ad un immediato ostracismo, in un mondo che ha
leggi non regole.
Un mondo però che
ti resta dentro, Shane Williams, tre quarti ala gallese,
chiarisce questo concetto quando durante un'intervista alla fine
della sua ultima partita con la maglia della nazionale dice che
vorrebbe rimanere nel mondo del rugby.
In realtà afferma
qualcosa di più profondo perché letteralmente lui dice, in the
rugby side of things.
Come se aver
giocato a rugby, o anche solo essere stato vicino a questo mondo, ti
lasciasse in eredità una prospettiva diversa nel valutare la vita,
un colpo d'occhio sul mondo più schietto e sincero.
Credo che sia
questo quello che fa innamorare di questo sport, sembra una
realizzazione teatrale della nostra vita.
Fatta di tentativi
convulsi di giungere da qualche parte, costellati da enormi tronate,
cadute.
Bisogna avere la
forza di rialzarsi, utilizzando sempre gli insegnamenti del passato
ed è buona regola avere persone accanto che sinceramente tendano con
te ad un obbiettivo comune.
Almeno male che
vada si è stati in compagnia.
Già pubblicato su "Il Becco".
Giulio Achille Mignini
Già pubblicato su "Il Becco".
Giulio Achille Mignini
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