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mercoledì 2 aprile 2014

Blade Runner: la sfida dei linguaggi


“Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi, navi da combattimento in fiamme al largo dei Bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. E’ tempo di morire”.
Il celebre monologo finale di Blade Runner (1982), il capolavoro di Ridley Scott, sospeso tra l’euforia spettacolare e citazionista del cinema postmoderno e lo stile pensoso e malinconico di quello moderno, viene pronunciato da Roy(Rutger Hauer), un Nexus 6, l’ultima versione di androidi prodotti dalla Tyrell Corporation. Roy, fuggito dalle colonie extramondo insieme ad altri quattro compagni, è capace di provare emozioni e ricordare il passato, ma vorrebbe vivere più dei quattro anni stabiliti nel momento della sua immissione. Alla fine, è costretto ad accettare la sua condizione, e muore serenamente, davanti agli occhi di Rick Deckard (Harrison Ford), il detective incaricato di ucciderlo.
Secondo il filosofo Martin Heidegger, il “pensiero calcolante”, quel sapere che considera ogni ente come strumento, si estrinseca nella modernità attraverso il predominio della tecnica e della scienza su ogni aspetto della vita umana. Nel mondo della ragione calcolante - perfettamente rappresentata dalla scenografia di Syd Mead, che raffigura una città inquinata, caotica e opprimente - tutto risponde alla logica del consumo. Eppure, Roy oppone al primato della tecnica un altro linguaggio, poetico e filosofico, che Heidegger chiama “pensiero rammemorante”; si tratta di un pensiero abissale, originario, che concerne il mondo dei significati, il senso delle cose, il mistero dell’essere. E’ il linguaggio dei sogni, dei ricordi, delle emozioni. Più umano degli umani. Un paradosso.
La sequenza finale è un’altra delle pagine controverse del film; la casa di produzione impose infatti un finale posticcio e consolatorio, in cui Deckard e Rachel fuggono da Los Angeles verso un altro pianeta incontaminato; nel director’s cut, invece, Deckard trova un origami a forma di unicorno – lasciato probabilmente da Gaff -, lo stesso che aveva sognato in precedenza. Anche Deckard scopre quindi di essere un replicante, uno strumento, un oggetto, proprio come gli altri Nexus 6. Rimane solo la fuga con la donna amata. Incerta. Come tutto il resto.

“La voce della luna”(1990), ispirato al “Poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni, è l’ultima pellicola di Federico Fellini; nel film, il prefetto Gonnella (Paolo Villaggio) e il giovane Ivo Salvini (Roberto Benigni) trascorrono insieme la notte, inseguendo sogni e ascoltando la voce della luna che viene dai pozzi. La coppia viene derisa dall’autorità, che cerca di rieducare il giovane Ivo, e dalle popolazioni locali, che per esorcizzare il mistero della luna ne catturano una fetta e organizzano un banchetto per festeggiare. La realtà dei sogni, della poesia si infrange contro la volontà di potenza degli uomini, che, con l’ausilio della tecnica, cercano di dominare quello che non riescono a capire. Eppure, “io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”. Nel notturno felliniano, Ivo riesce ancora a sentire, da lontano, la voce della luna.  

Giulio Aronica

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