Che cos’è la “Grande Bellezza”?
La Grande Bellezza è Roma, le sue chiese, i suoi anfiteatri, le
statue classiche, le bellezze artistiche e naturali che l’uomo
moderno, distratto dal rumore delle feste insulse, dal
chiacchiericcio e dal proprio egoismo, non riesce più a vedere. Il
viaggio di Jep Gambardella, l’anziano viveur interpretato
magistralmente da Toni Servillo, nella Roma meravigliosa e decadente
dei tempi nostri si presenta prima di tutto come una lenta educazione
allo sguardo. Il ritorno alle radici classiche e cristiane della
nostra civiltà parte dalla riscoperta dei suoi tesori sepolti e
dimenticati, visibili e invisibili, che risplendono alla luce
dell’alba davanti agli occhi allucinati del protagonista.
La ricerca dell’io e il rapporto con
il paesaggio è un motivo costante di tutta la cinematografia
italiana del secondo dopoguerra, e abbraccia autori molto diversi tra
loro, come De Sica, Rossellini e Antonioni. Nel cinema neorealista,
il protagonista è un semplice “personaggio-guida”, che, pedinato
dalla cinepresa, ci porta dentro le periferie romane (Ladri di
biciclette), la povertà dei pescatori siciliani (La terra trema), e
le macerie della Germania post-bellica (Germania anno zero). A
livello stilistico, il piano sequenza (l’inquadratura lunga del
cinema delle origini, senza stacchi di montaggio) e la profondità di
campo allungano i tempi del racconto e allargano gli orizzonti del
visibile. Il film neorealista chiede quindi non solo di essere
“letto” attraverso le storie dei suoi personaggi, come accadeva
nella commedia classica hollywoodiana, ma di essere guardato,
osservato. A partire dagli anni Cinquanta, nel cinema italiano si
intensifica il rapporto tra l’io e l’universo circostante; nel
film “Viaggio in Italia”(1954) di Rossellini, Katherine Joyce
(Ingrid Bergman) e suo marito rappresentano il mondo moderno, ricco
e industriale che si immerge nell’universo povero e affamato, ma
denso di umanità e spiritualità, della città di Napoli, con le sue
radici classiche e mediterranee, che rivivono durante la visita di
Katherine al Museo Nazionale. Le statue greche, il fauno ubriaco,
l’Ercole Farnese, il tempio di Apollo e, soprattutto, Pompei con i
due corpi abbracciati e carbonizzati, simbolo della precarietà della
vita, hanno un effetto straniante su Katherine, che impara – e noi
con lei - a guardare la realtà da una prospettiva completamente
diversa, e, nel rapporto con l’”altro”, ritrova se stessa e la
capacità di vedere il mondo.
L’interazione tra io e realtà
conduce ad esiti meno rassicuranti nel cinema di Michelangelo
Antonioni; per Antonioni, l’atto di fare cinema e quello di
guardare sono sostanzialmente la stessa cosa. Eppure, i suoi
personaggi si muovono incerti, confusi, si perdono nel paesaggio e
spariscono dall’inquadratura, senza sapere – e noi con loro –
dove andare e che cosa guardare. Come l’uomo moderno, sembra dirci
Antonioni, scopre di non essere al centro del mondo, così i suoi
personaggi sono i protagonisti di storie capitate ad altri, mancate o
non finite, dove non accade assolutamente nulla. La realtà si
presenta come un campo di sguardi, di possibilità, di punti di vista
infiniti, in cui l’uomo rischia sempre di perdersi.
L’incomunicabilità dei suoi film è quindi l’incapacità di
capire gli altri e il mondo, di comprendere quello che egli stesso
chiama “il mistero dell’immagine”. L’unica certezza sembra
essere la morte della prospettiva rinascimentale, della
rappresentazione classica, che, come suggerisce il celebre finale di
Zabriskie Point, esplode in una miriade di frammenti, luci e colori,
sulle note dei Pink Floyd.
Non è possibile non citare infine un
capolavoro più recente di Gabriele Salvatores ,“Mediterraneo”
(1991), dove la fuga, oltre ad un estremo atto di protesta politica e
sociale, assume un valore esistenziale, e diviene l’unico modo per
sentirsi vivi e ritrovare l’armonia con la natura e le persone,
riscoprendo le bellezze storiche e naturali del Mediterraneo. Lo
sguardo e l’identità. Ancora una volta. E torniamo all’inizio
del nostro breve viaggio.
Dice Rossellini che il realismo è un
atto di “amore, rispetto e curiosità” verso l’altro, e forse
sembra essere proprio questo l’insegnamento del cinema italiano: la
ricerca dell’io parte dal rapporto con l’alterità,
dall’abbandono delle proprie certezze morali e culturali per
salpare in mare aperto, dalla valorizzazione delle radici e del
passato, dalla grande bellezza attorno a noi. Scrive Marcel Proust
che “l’unico vero viaggio, l’unico bagno di giovinezza sarebbe
vedere l’universo con gli occhi di un altro”.
Giulio Aronica
Complimenti per l' articolo
RispondiElimina